Storie ... Due storie di nonni, (più una) - di Pino De Luca -
venerdì 23 maggio 2008

Ho ricevuto, gran privilegio, da Dario e Luca due storie di nonni, bellissime. Il nonno di Dario era socialista, il nonno di Luca era “lu Turcu” anche se era di origine greca.
Mio nonno invece era un fascista della prima ora, un fascista fino all’alleanza con i tedeschi, poi una specie di anarchico silenzioso, con il quale ho avuto il privilegio di trascorrere gran parte della mia infanzia.


Racconterà, ciascuno di noi, la storia del nonno. Una storia che è storia comune. Già, che cosa rende simili i nostri nonni? Quello di Dario è del nord, quello di Luca è greco, mio nonno di cognome faceva Saracino, non è difficile dedurne le origini turche ….


Due storie di bambini
La storia che Dario racconta è pubblica e parla di Rino, bambino brindisino, e Wang, bambino cinese che vanno a scuola e tornano a casa insieme, che non capiscono cosa sia l’immigrazione clandestina e parlano una lingua comune e giocano e litigano fottendosene allegramente del fatto che uno ha gli occhi a mandorla e l’altro la pelle da ragazzo del sud.


La seconda me la ha raccontata mia figlia, narra di una coppia di meridionali, diversamente abili che si sposano. Emigrano verso il nord, perché li, sembra, ci sia più tolleranza. Ragioni complesse impediscono loro di avere dei figli, provano la fecondazione assistita di tipo eterologo. Dopo lunghi sacrifici finalmente la gravidanza, assistenza, parto, nascono due gemelli. Gemelli eterozigoti, uno è scuro di pelle, l’altro bianco. Questa coppia rifiuta il bimbo nero. Al nord, è evidente che c’è più civiltà, e allora qualcuno si indigna e nel tipico tollerante modo di porsi afferma: “adesso pure gli handicappati meridionali si mettono a fare i razzisti!”


Non è così. Gli italiani non sono razzisti. Nel caso dei nostri conterranei la risposta è più facile, del bimbo bianco nessuno oserà pensare alla fecondazione eterologa, di quello nero è difficle spiegare le origini. Il rifiuto è dettato semplicemente da una atavica paura delle “corna” o della immaginata “impotentia coeundi” del maschio meridionale. Suggerisco: dite che uno è vostro e l’altro è adottato, tra dieci anni i due ragazzi se ne fotteranno allegramente del colore della pelle, come Rino e Wang.


Eccolo il tema delle storie di nonni e di bambini, la razza. Tornata prepotentemente alla ribalta della discussione politica e sociale come in tutti i momenti di crisi economica, la questione della razza rischia di ridiventare una terribile causa di divisioni che possono liberare il mostro che è in ciascuno di noi. Il fatto stesso che ci si domanda se gli italiani sono razzisti è una forma di razzismo.


Forse sarebbe giusto chiedersi come si diventa italiani, e se lo siamo per davvero. Se ci alziamo in piedi quando sentiamo l’Inno nazionale, se salutiamo e rispettiamo il Tricolore, se conosciamo la nostra Costituzione Repubblicana, ieri, in una città si celebrava il sessantesimo anniversario della Costituzione. L’uomo che annunciava la festa con il suo megafono motorizzato invitava i cittadini a partecipare all’anniversario della “Ricostituzione” e, chiesto ad una persona politicamente informata di cosa si celebrasse, mi ha risposto: forse l’anniversario della Banda del Paese (sic!!!).


Il tema della razza richiama le nostre paure ancestrali e mette a nudo le nostre insicurezze e le nostre fragilità. All’insicurezza e alla fragilità, quasi sempre si risponde con la violenza, una violenza che alligna nella nostra generazione, adusa all’abuso della gratuita libertà.


Una generazione che ha compiuto il suo sviluppo in parabola discendente: concepita in modo più o meno eterologo che ha trascorso l’infanzia negli anni d’oro, l’adolescenza e la gioventù negli anni di piombo, e la maturità negli anni di merda. Siamo la prima tra le generazioni umane che tendono a restuire un mondo peggiore di come lo hanno trovato.


Non ci vuole niente a riscattarci, è una cosa facile facile, proviamo a non trasmettere ai nostri figli e ai nostri nipoti le nostre frustrazioni. Magari scopriamo che quando si dice che oggi, i giovani non hanno valori, è una grande minchiata, magari siamo noi ad avergli regalato quelli sbagliati.


Per questo ho richiamato storie di nonni e storie di bimbi, che i valori dei primi ci aiutarono a crescere e i secondi se li aspettano, proviamo a non giocarci ai dadi quei pochi che ci sono rimasti.


Domenica prossima Cantine Aperte, andrò a fare qualche visita, magari scopro che a raccogliere l’uva e a lavorarla c’è qualche turco, qualche greco, qualche magrebino e che fra una cinquantina d’anni, i loro figli e i loro nipoti si racconteranno delle storie di nonni, e magari qualcuno si ricordi pure di noi.


Pino De Luca (pino_de_luca@virgilio.it)


 

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